Molto spesso mi chiedo, quanto siamo realmente disposti a correre il rischio di andare oltre l’idea che, fino a quel momento, ci siamo costruiti sulle cose?
La realtà si sa, è faccenda assai complessa, per questo, credendo erroneamente di poterla controllare, cerchiamo di catalogarla…
Proviamo a riporre ogni informazione che riceviamo dentro un “giusto” cassetto illudendoci non solo di aver fatto ordine nel caos, ma cosa ancora peggiore, ci illudiamo di aver compreso il senso delle cose.
Molto spesso mi chiedo, come possiamo credere di comprendere la realtà se gli unici strumenti che abbiamo a disposizione sono quelli che la vita ci ha donato sino a quel momento? Quegli strumenti basteranno? O la nostra visione delle cose potrebbe al tempo stesso essere un limite per la conoscenza della realtà che viviamo?
Platone, uno dei padri della filosofia greca antica (428 a.C.) , ci parla di questo argomento tramite il “mito della caverna”, mito di cui scrisse in uno dei libri della raccolta “La Repubblica” (514 a.C.) .
Lui immagina dei prigionieri costretti sin da bambini a vivere in catene all’interno di una caverna dove l’unica fonte di riscaldamento è del fuoco, esterno alla caverna , che proietta la sua luce contro un muro della stessa.
La luce del fuoco proiettata al muro fa si che per ogni movimento o passaggio di uomini, cose o animali si crei una grande ombra all’interno della caverna, ombra che è la sola fonte di conoscenza della realtà esterna per i prigionieri.
La loro idea delle cose per cui si fonderà sulle sole ombre che il fuoco riesce a proiettare all’interno della caverna.
Platone immagina poi che uno dei prigionieri venga liberato dalle catene e possa avere esperienza diretta della realtà esterna.
In primo luogo il prigioniero dovrebbe affrontare il disagio e il dolore provocato dalla luce esterna , col passare del tempo, abituatosi a questa, dovrebbe affrontare il disagio nel capire che la realtà vissuta fino a quel momento era soltanto una copia (le ombre sul muro) della realtà vera, delle cose , degli uomini, degli animali che si muovevano all’esterno.
Se il prigioniero, finalmente libero, volesse rendere liberi i compagni l’ennesimo disagio da affrontare sarebbe quello di convincere gli altri ad essere liberati.
Quale prezzo siamo disposti a pagare per essere liberi? Quanto coraggio ci vuole (o ci manca) per smontare i nostri preconcetti?
Sicuramente i compagni si chiederebbero se possa valere la pena di affrontare gli stessi disagi e gli stessi dolori provati dal prigioniero (liberato) per abituare gli occhi, ma anche la mente, alla luce abbagliante al di fuori della caverna.
Come si può ben capire Platone tramite la metafora confronta la realtà esterna con quella interna… la caverna è galera ma anche casa per i prigionieri, il sole indica la luce della conoscenza vera delle cose (che si trova all’esterno della caverna, della prigione del sé ).
Il prigioniero che tenta di liberare i compagni è colui che scopre la verità delle cose,cerca di trasmetterla ma non sempre riesce nell’intento in quanto il passaggio di accettazione è molto complesso. Le ombre sono la proiezione della realtà vera che l’uomo scambia per essa (non conosciamo in maniera diretta le cose della realtà ma il loro effetto, quindi la proiezione che queste hanno sulla nostra mente, una copia quindi delle cose reali) .
La “Trahison des images” (il tradimento delle immagini, 1928-29) è un olio su tela del pittore surrealista belga René Magritte vissuto fra gli ultimi anni del ‘800 e circa la metà del ‘900.
Uno degli obiettivi di Magritte era quello di sottolineare i limiti del linguaggio e della percezione umana che tende a semplificare e sintetizzare la realtà.
Ed ecco che un concetto che può essere letto come “banale” si riempe di significato e profondità, l’oggetto raffigurato non è una pipa (risposta che daremmo se ci venisse chiesto di descrivere l’opera) ma l’immagine di una pipa.
L’arte di Magritte non è semplice raffigurazione della realtà ma stuzzica il lavoro della psiche,tramite un cortocircuito visivo, creando un gioco tra realtà e illusione, tra “vero” e “finto”.
Rinnega la pittura classica secondo cui esiste un legame imprescindibile tra la realtà e la sua rappresentazione, caposaldo della sua arte è la tecnica del “trompe l’oeil” (già utilizzato in maniera diversa da Salvador Dalì) “inganna l’occhio” per dare risalto ai soggetti principali, raffigurati tridimensionalmente in contrasto allo sfondo (solitamente bidimensionale).
Magritte fonda la sua arte sull’ambiguità, viene chiamato “saboteur tranquille” per la sua capacità di insinuare dubbi sul reale tramite la rappresentazione del reale stesso, non col semplice scopo di ritrarlo ma per accennare il suo mistero senza definirlo, invitandoci inevitabilmente ad andare oltre la “forma” delle cose, la loro “immagine”.
A proposito di saper “andare oltre”…esiste un altro artista che mi ha fatto riflettere su questo concetto ultimamente…
Lui crea le sue opere d’arte in Trentino Alto Adige, esattamente a Bolzano nel comune di Cardano sul versante orientale del Renon.
E’ Urban Plattner, figlio di Johannes Plattner che seguì il lavoro fatto dal nonno prima, poi dal padre nelle vigne appartenenti al maso del 1300, ristrutturato dalla famiglia negli anni ’80, situato a 500m di altezza.
Johannes ha cominciato a vinificare i suoi 3,5 ettari in biologico dai primi anni ’90 , la passione trasmessa al figlio poi portò alla scelta di una vinificazione in biodinamica.
I loro sono vini completamente fuori dall’ordinario, che riescono ad avere una personalità totalmente differente, unica.
La prima volta che provai il Gewurztraminer di Urban ricordo di essere rimasta sconvolta dalla sua sapidità, che è il tratto distintivo di questo vino, una sensazione che non ci si aspetta, freschissimo, con un’aromaticità assolutamente modesta, i suoi 12 mesi in tonneaux che si percepiscono soltanto alla fine del sorso, ovviamente non filtrato. Da quel momento decisi che l’avrei suggerito come un Gewurztraminer totalmente inusuale, fuori dal coro, fuori da qualsiasi schema.
I vini di Urban sono vini che richiedono tempo, i suoli di porfido dove crescono le vigne sono molto magri, non trattengono bene l’acqua e questo fa inasprire i tannini, per cui lui utilizza in quasi tutte le sue vinificazioni il legno che tende ad arrotondare quello che altrimenti sarebbe il lato duro di questi vini.
La produzione annua della cantina conta un numero pari a 15.000 bottiglie prodotte da soli vitigni autoctoni, gewurztraminer, schiava e l’antichissima malvasia rossa. Ognuno di essi matura seguendo il suo unico tempo, e il lavoro di Urban consiste nel portare a termine questo processo in modo naturale dalla raccolta (ovviamente manuale) fino al termine del periodo dell’affinamento in bottiglia.
Cheers! 😉